Ecce lignum crucis, in quo salus mundi pependit: venite, adoremus.
Ecco il legno della croce, dal quale pende la salvezza del mondo: venite, adoriamo.
Mentre compiamo il suggestivo e austero gesto dello svelamento e dell’ostensione della Croce, nella Liturgia del Venerdì Santo, si canta questa antica antifona, risalente forse addirittura all’ottavo o nono secolo della nostra era cristiana. Ma il concetto teologico e di fede legato a quest’antifona è ancor più antico, soprattutto se – invece di tradurre letteralmente “il legno” della Croce – adoperiamo il termine “albero della Croce”.
I Padri della Chiesa (pensiamo anche solo ad Ambrogio e Agostino) comparavano l’albero della Croce all’albero dell’Eden. La comparazione non era paritaria: se all’albero dell’Eden fu appeso il frutto che portò alla nostra condanna, all’albero della Croce fu appeso il Frutto che portò alla nostra salvezza. La natura dell’albero della Croce, e di conseguenza il frutto che ne pende, è di tutt’altra essenza rispetto a ciò che segnò l’inizio della nostra storia di disobbedienza e di lontananza da Dio. Per questo, se per la disobbedienza del primo Adamo fu colto dall’albero dell’Eden il frutto della nostra condanna, per l’obbedienza del nuovo Adamo fu colto dall’albero della Croce il frutto della nostra salvezza, che – in maniera incomprensibile e mirabile – coincide con lo stesso nuovo Adamo, Cristo: il frutto e colui che obbedendo coglie per noi la salvezza che viene da Dio sono, in realtà, la stessa persona.
Ma non è su queste suggestive immagini teologiche che vorrei soffermare la mia attenzione, quest’oggi, quanto sul fatto che la Croce sia un albero che dà frutti, e frutti di salvezza. Parliamoci chiaro: che cos’è, per noi, la Croce? Che cosa pensiamo, quando pensiamo alla Croce? Di certo, non credo che ci venga da pensare a qualcosa di bello e di positivo. Quando, infatti, diciamo: “Ho un’enorme croce da portare sulle spalle”, oppure “Che croce mi è capitata!”, non esprimiamo sicuramente gioia né tanto meno soddisfazione. La Croce ci rimanda alla fatica, alla sofferenza, al sacrificio, al peso, alla malattia, al dolore, in definitiva, alla morte. A tutto possiamo pensare, quando pensiamo alla Croce, tranne che a un albero che dà frutti. Il frutto è qualcosa di piacevole, qualcosa gustoso da assaggiare, qualcosa che sazia e che dà piacere, che rinfresca e dà vigore… insomma, un frutto ci parla di vita, non certo di dolore o di morte. Eppure, per un incomprensibile mistero della volontà di Dio, anche l’albero della Croce dà frutto, e per di più un frutto che dona la vita; tra l’altro, non una vita qualsiasi, ma quella che dura per sempre. Non è piacevole da mangiare, il frutto dell’albero della Croce, “non ha bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, come dice il profeta Isaia nella prima lettura di oggi: eppure “vivrà a lungo e vedrà una discendenza”. Questo è capace di fare il frutto dell’albero della Croce.
La nostra vita è cosparsa di croci, di tutte le dimensioni, di tutte le fattezze, di qualsiasi peso e forma, di ogni tipo di durata. Tutti quanti le abbiamo sulle spalle, ognuno la nostra, ognuno diversa, a volte più di una, e tutti per lo meno una. Ce ne sono di tutti i tipi, eppure nessuna è identica all’altra; tutte sono pesanti, nessuna è più leggera o più facile da portare, la maggior parte di esse le sopportiamo. Grandi e piccini, giovani e vecchi, adulti o anziani, nessuno è escluso: e nessuno può lamentarsi più di un altro, nessuno consolarsi più degli altri, la croce tocca tutti, prima o dopo, presto o tardi, nessuno ne è escluso. E soprattutto, nessuno può scrollarsela di dosso facilmente dicendo: “A me non importa, io non la voglio”. Non è neppure necessario andarsela a cercare: la nostra croce è già in cerca di noi, ce l’abbiamo sulle spalle prima ancora di accorgerci, e quando ce ne accorgiamo ha già preso la forma del nostro corpo e della nostra vita.
Ci capita addosso personalmente, singolarmente, e ci capita addosso anche come umanità, nel nostro insieme. In alcuni luoghi ha la forma di una guerra, in altri ha la forma della miseria, in altri ancora del degrado, in altri della violenza e della delinquenza, della corruzione, dello sfruttamento, della menzogna, della perversione del potere. Chi più ne ha, più ne metta. E chi non sa vedere le croci dell’umanità, apra il giornale, accenda la televisione, consulti la rete, entri nel suo social network, si connetta con il cellulare… la croce è diventata esperta, abile a mostrarsi anche attraverso le nuove tecnologie. Perché sta al passo con i tempi, progredisce con l’uomo, non lo abbandona mai, non lo lascia mai solo, non fugge da lui così come lui vorrebbe: no, gli sta sempre addosso, in cima, sulle spalle.
Eppure, la croce è un albero che dà frutti. Poco piacevoli da mangiare, ma li dà, li produce. E l’umanità se n’è accorta un venerdì pomeriggio, un giorno come oggi, quando da uno di questi alberi della Croce di cui il giardino dell’umanità è disseminato, fu appeso un frutto che è la salvezza del mondo, e che da quel giorno non ha più abbandonato l’umanità al suo destino.
Da allora, non c’è croce che non dia frutto, non c’è sofferenza che sia solo dannosa, non c’è male che venga solo per nuocere, non c’è dolore che non purifichi, non c’è sacrificio che non rafforzi, non c’è lacrima che non fiorisca. Perché Dio ha scelto di pendere con suo Figlio, come un frutto, da quell’albero della Croce.
Perché la Croce, da quel venerdì pomeriggio, non è certo scomparsa dalla faccia della terra, tutt’altro: ma non ha più l’ultima parola sull’umanità.