Il 16 luglio 1983, memoria della Madonna del Carmine, in una casa diroccata e abbandonata messa a disposizione dal Comune sulla collina di Saluzzo (CN), tra rovi e macerie, suor Elvira Petrozzi dà inizio alla Comunità Cenacolo: un luogo di accoglienza che negli anni diventerà di speranza e di rinascita per tanti giovani persi nel mondo delle tenebre, dell’emarginazione, della droga, della solitudine.
Madre Elvira inizia pensando di aprire una casa, ma i progetti di Dio si rivelano più ampi: i giovani giungono da ogni parte chiedendo di essere accolti per poter ritrovare il senso della vita, e così le case della Comunità Cenacolo si moltiplicano prima in Italia, quindi in Europa e poi in altre terre: attualmente le fraternità sono 61, presenti in 18 paesi del mondo.
Ogni anno, in grato ricordo al Signore per la nascita della Comunità, si svolge presso la Casa Madre sulla collina di Saluzzo (CN) un meeting internazionale denominato Festa della Vita: quattro giornate che alternano momenti di preghiera, testimonianze, catechesi, condivisione, gioia, canti, danze e musical, alla quale partecipano migliaia di persone.
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Da una intervista a Madre Elvira
Avevo diciannove anni quando ho lasciato la famiglia, con tanta sofferenza da parte soprattutto di mia madre, perché avevo altri fratelli, più piccoli e più grandi, da accudire. Però questa chiamata è stata forte, più forte degli affetti, più forte del sangue, più forte della carne, più forte anche della realizzazione. Sono partita per un convento che ancora oggi è fiorente, a Borgaro Torinese, dalle suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, una grande fondatrice francese che ha avuto il cuore aperto al servizio dei poveri senza distinzione. Così, in questa comunità sono rimasta circa ventotto anni.
Dopo, dentro di me, si è sviluppato il desiderio forte di impegnarmi per i giovani, in modo particolare per i giovani che erano alla ricerca. Lo gridavano così forte, che a me sembrava che lo urlassero con la droga, addormentandosi, disperandosi, lasciandosi morire giorno dopo giorno. Volevano sapere se l’amore esiste, se la speranza c’è, se è possibile vivere la pace dentro di noi, più che fuori, se la loro storia può essere ricostruita, rifatta.
Leggevo questo nei volti e nelle scelte sbagliate dei giovani. Ho chiesto e richiesto tante volte ai miei superiori, i quali comunque avevano ragione quando mi dicevano che andavo nell’incognita, che non ero preparata, che non avrei potuto farlo: tutte cose che mi facevano solo attendere, soffrire e pregare. Per me è stato come un fuoco dentro, un’agonia nell’attesa di come avrebbe sviluppato lo Spirito Santo quello che dentro di me si muoveva. Ho sofferto molto, perché mi sembrava di perdere tempo, il tempo per Dio e il tempo per i giovani, per proteggerli, custodirli, educarli, amarli. Qualcuno mi diceva anche: “Ma Elvira, perché non esci dalla Congregazione, così puoi fare quello che vuoi?”. Ma io non intendevo fare quello che volevo, tutt’altro. Quindi ho aspettato con tanta fiducia e speranza, ho pregato, sofferto, amato, finché i superiori un giorno hanno avuto fiducia e mi hanno detto: “Va bene!”. Abbiamo, così, iniziato in una casa dataci dal Comune di Saluzzo, su una collina, in comodato.
Questa casa era abbandonata da un po’ di anni e abbiamo trovato quello che si trova quando una casa è abbandonata: sterpi, rovi, porte rotte, finestre senza vetri. Però abbiamo iniziato con l’ardore, la forza e la bellezza dell’amore. L’amore era anche lì, ancora una volta più forte dei disagi, della paura, del fallimento. Poteva anche essere un fallimento, ma in quel momento non ho mai pensato che potesse esserlo, perché dentro di me c’era una forza di amore che non era solo un amore umano, il mio amore. Non sapevo neanche se ero capace ad amare, però dentro di me c’era questo coraggio, questa capacità di rischiare, di vedere al di là, di credere contro ogni fallimento.
Questo, adesso lo posso dire, era l’amore di Dio che aveva invaso la mia volontà, la mia libertà, la mia forza, in una debolezza estrema. Questo per me è stato tutto un riscoprire la mia fede. Ho trovato una fede concreta, incarnata, operosa, una fede rischiosa. Quando ho visto quel cancello aperto ho tirato un grande sospiro di gioia. Mi ricordo che le viscere si sono mosse, hanno danzato. Era arrivato il momento e dentro di me c’era una pienezza di vita.
Così, giorno dopo giorno, sono incominciati ad arrivare i ragazzi. Noi sinceramente avevamo stabilito un mese per fare comunione tra di noi, per pregare di più, per vivere la vita comunitaria. Invece, qualche giorno dopo, al cancello si sono affacciati tre ragazzi che ci hanno chiesto: “È questa la comunità per drogati?”. Noi non avevamo definito la comunità dei drogati, ma la comunità dei giovani persi nel non senso, nella noia, nell’insicurezza, incapaci di iniziare e concludere una storia. Noi ci siamo guardate e abbiamo detto: “Drogati o non drogati, sono giovani”. E allora gli abbiamo detto di sì.