Il 7 ottobre 1941, sua ecc. mons. José Alves Correia de Silva ordinò a Lucia di scrivere qualsiasi altra cosa che ricordasse sugli avvenimenti di Fatima. L’8 dicembre la veggente consegnò il manoscritto.
JMJ Eccellenza reverendissima,
dopo un’umile preghiera ai piedi del tabernacolo e del Cuore immacolato di Maria, nostra tanto cara Madre del cielo, dove ho chiesto la grazia che non permettano che scriva nemmeno una semplice lettera che non sia per la Sua gloria, mi accingo (all’opera), nella pace e felicità di coloro che hanno la coscienza sicura che fanno in tutto la divina volontà.
Così, completamente abbandonata nelle braccia del Padre celeste e sotto la protezione dell’immacolato Cuore di Maria, vengo a deporre ancora una volta nelle mani dell’E.V. rev.ma, i frutti dell’unica mia pianta: l’ubbidienza.
Prima di cominciare, ho voluto aprire il Nuovo Testamento, l’unico libro che voglio avere qui davanti a me, in un angolo ritirato della soffitta, alla luce di una povera tegola di vetro, luogo dove io mi ritiro, per sfuggire per quanto mi è possibile, agli sguardi umani. Le ginocchia mi fanno da scrivania e una vecchia valigia serve da sedia. «Perché – mi domanderà qualcuno – non scrive nella sua cella?». Il buon Dio ha pensato bene di privarmi anche della cella, anche se qui in casa, ce n’è parecchie e vuote. In verità, per la realizzazione dei suoi disegni, torna meglio la sala di ricreazione e di lavoro, tanto più scomoda per scrivere qualche cosa durante il giorno, quanto troppo buona per riposare durante la notte. Ma sono contenta e ringrazio Dio per la grazia di essere nata povera e di vivere ancora più povera per amore suo.
Ah, mio Dio! Ma non era affatto questo che io volevo dire.
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che erano in Cristo Gesù. Egli, pur possedendo la natura divina… annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo… Umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte». Dopo aver meditato un poco, ho letto ancora nello stesso capitolo i versetti 12 e 13: «Lavorate per la vostra salvezza, con timore e tremore. Perché è Dio che produce in voi, a Suo piacimento, il volere e l’operare».
Benissimo. Non ho bisogno di nient’altro: ubbidienza e abbandono in Dio, che è Colui che opera in me. In realtà, altro – non sono che il povero e miserabile strumento di chi vuole servirsi e che tra poco, come il pittore butta nel fuoco il pennello che non usa più, perché si riduca in cenere, così il divino pittore ridurrà alle ceneri della tomba il suo strumento che ormai non serve più, fino al grande giorno degli alleluia eterni. io desidero ardentemente quel giorno, perché la tomba non annienta tutto, e la felicità dell’amore eterno e infinito comincia lì.
Eccellenza reverendissima, il 7 ottobre 1941, a Valenza, il rev. P. Galamba mi domandò: «Lei, sorella, quando ha detto che la penitenza era stata fatta solo in parte, lo ha detto da se stessa o le è stato rivelato?». Mi pare, E. rev.ma che io non dico e – non scrivo -in tali casi – nessuna cosa che provenga soltanto da me. Devo ringraziare Dio per l’assistenza del divino Spirito Santo, che io sento – mentre mi suggerisce quello che devo scrivere o dire. Se, a volte, la mia stessa immaginazione o la mia mente mi suggeriscono qualche cosa, mi accorgo subito che gli manca l’unzione divina e sospendo fino a conoscere, – nell’intimo della mia – anima, quello che Dio vuole dire al suo posto. Ma perché sto dicendo tutto questo? Non lo so; lo sa Dio, che ha ispirato a V.E,. rev.ma di ordinarmi di dire tutto; che avvertitamene non nasconda niente.
Comincerò dunque, eccellenza reverendissima, a scrivere quello che il buon Dio vorrà farmi ricordare di Francesco. Spero che nostro Signore gli faccia conoscere in Cielo quello che a suo riguardo io scrivo in terra, affinché, insieme a’ Gesù e a Maria, interceda per me, specialmente in questi giorni.
L’amicizia che mi legava a Francesco era soltanto quella che derivava dalla parentela e dalle grazie che il cielo si degnava concederci.
Quando, durante i nostri giochi, qualcuno s’impuntava a negargli i suoi diritti, dopo che aveva vinto, cedeva senza resistenza, limitandosi a dire soltanto: «Credi di aver vinto tu? E va bene! a me, questo non m’importa» Non manifestava, come Giacinta, la passione per la danza. Gli piaceva di più suonare il piffero, mentre gli altri danzavano. Nei giochi era abbastanza animato, ma a pochi piaceva giocare con lui, perché perdeva quasi sempre. Io stessa confesso che avevo poca simpatia per lui, perché la sua natura pacifica eccitava a volte i nervi dalla mia eccessiva vivacità. A volte, lo prendevo per un braccio e lo facevo sedere per terra o su qualche masso, e gli dicevo di stare quieto, e lui ubbidiva come se io avessi una grande autorità. Dopo sentivo rimorso e andavo a prenderlo per mano e veniva con lo stesso buon umore come se non fosse successo niente..
Se qualche bambino insisteva a prendergli qualche cosa che era sua, diceva: «Lascia perdere! A me, che m’importa!».
Mi ricordo che arrivò una volta a casa mia con un fazzoletto da tasca col disegno della Madonna di Nazareth, che gli avevano portato poco prima dalla spiaggia. Me lo mostrò con grande gioia e tutti i ragazzi lì intorno vennero a vederlo. Di mano in mano, in pochi istanti, il fazzoletto sparì. Si cercò, ma non si riusciva a trovano. Poco dopo io lo scoprii nella tasca di un altro piccolo. Glielo volevo prendere, ma lui insisteva che era suo, che anche a lui lo avevano portato dalla spiaggia. Allora, Francesco, per finirla con la questione, si avvicinò e disse: «Lascia perdere! A me che m’importa del fazzoletto!». Mi pare che se fosse cresciuto, il suo difetto principale sarebbe stato quello di «non te la prendere».
Quando, verso i sette anni, cominciai a pascolare il mio gregge, lui parve restare indifferente. Veniva la sera ad aspettarmi con la sua sorellina, ma sembrava che venisse più per far piacere a lei che per amicizia. Venivano ad aspettarmi nel cortile dei miei genitori. E mentre Giacinta correva verso di me, non appena sentiva i campani del gregge, lui mi aspettava seduto su alcuni gradini di pietra che c’erano davanti alla porta di casa. Dopo, veniva là con noi nella vecchia aia a giocare, mentre aspettavamo che la Madonna e gli angeli accendessero i loro lumini. Si entusiasmava anche a contarli, ma nulla lo affascinava tanto come una bella aurora o un bel tramonto. E fino a quando se ne intravedeva qualche raggio, non scrutava se c’erano già dei lumini accesi. «Nessun lume è così bello come quello di nostro Signore», diceva a Giacinta a cui piaceva di più quello della Madonna, perché – diceva Lei – «non fa male agli occhi». E, entusiasmato, seguiva con lo sguardo tutti i raggi che, dardeggiando sui vetri delle case dei villaggi vicini, o nelle gocce di acqua sparse sugli alberi e sulle macchie dei monti, li facevano brillare come altrettante stelle, a suo parere mille volte più belle che quelle degli angeli.
Quando, con tanta insistenza, chiese alla madre che lo lasciasse andare col suo gregge per poter venire con me, era più per far piacere a Giacinta, che voleva più bene a lui che al suo fratello Giovanni.
Un giorno che la madre, già poco soddisfatta, non gli diede questo permesso, rispose, con la sua naturale tranquillità: «A me, mamma, m’importa poco; è Giacinta che vuole che io ci vada».
In un’altra occasione, confermò questo stesso fatto. Venne a casa mia una elle mie vecchie compagne e m’invitò ad andare con lei, perché aveva per quel giorno un buon pascolo. Il tempo era nuvoloso. Allora arrivai fino alla casa di mia zia a chiedere se andava Francesco con Giacinta, oppure se andava il loro fratello Giovanni, perché, nel caso che andasse quest’ultimo, io preferivo la compagnia dell’altra vecchia compagna. Mia zia aveva già deciso che quel giorno, siccome minacciava di piovere, andava Giovanni. Ma Francesco volle ancora insistere un’ultima volta presso la madre. Al ricevere un no secco e tondo, rispose: «Per me, fa lo stesso! ~ Giacinta che ci patisce di più».
Ciò che lo divertiva di più, quando andavamo per i monti, era star seduto sulla roccia più alta e suonare il suo piffero o cantare. Se la sua sorellina scendeva con me a fare alcune corse, lui restava tutto preso con le sue musiche e canti. Quello che cantava più spesso era:
Amo Dio su in cielo;
Lo amo anche in terra.
Amo nel campo i fiori;
amo le pecore sui monti.
Sono una povera pastora; prego sempre Maria; in mezzo al mio gregge, sono il sole di mezzodì.
Con i miei agnellini, ho imparato a saltare;
sono l’allegria dei monti, sono il giglio della valle.
Ai giochi prendeva parte tutte le volte che lo invitavamo a farlo; ma a volte manifestava poco entusiasmo dicendo: «Vengo, ma so che perdo».
I giochi che sapevamo e con cui ci divertivamo erano: quello dei sassetti, dei pegni, passare l’anello, quello del bottone, il paletto, le piastrelle, le carte (giocare a briscola, scoprire i re, i fanti e le regine ecc.). Avevamo due mazzi: uno, mio; un altro, loro. Il gioco preferito da Francesco era quello delle carte: a briscola.
Durante l’apparizione dell’angelo, si prostrò come sua sorella e come me, portato da una forza soprannaturale, che a ciò ci spingeva; ma l’orazione imparò sentendola ripetere da noi, perché dall’angelo non aveva sentito dire niente.
Quando in seguito, ci prostravamo per recitare questa orazione, lui era il primo che si stancava della posizione; ma testava in ginocchio o seduto, pregando anche lui, finché noi non avessimo finito. Dopo diceva: «Io non sono capace di stare così tanto tempo, come voi. Mi fa tanto male la schiena, che non ci riesco».
– Tu hai parlato con l’angelo: che cos’è che ti ha detto?
– Non hai sentito?
– No. Ho visto che parlava con te; ho sentito quello che tu gli hai detto; ma quello che lui ha detto a te, non so.
L’atmosfera soprannaturale in cui ci lasciava non era ancora passata e così io gli dissi che me lo chiedesse il giorno dopo, oppure che lo chiedesse a Giacinta.
– Giacinta, raccontami tu quello che ti ha detto l’angelo.
È – Te lo dico domani. Oggi non posso parlare.
Il giorno dopo, non appena mi fu vicino, mi domandò: «Hai dormito stanotte? Io ho pensato sempre all’angelo e a che cosa mai ti avrà detto». Gli raccontai allora tutto quello che l’angelo ci aveva detto nella prima e nella seconda apparizione. Ma lui pareva non aver avuto la comprensione di quello che le parole significavano e domandava: «Chi è l’Altissimo? Che cosa vuoI dire: i Cuori di Gesù e di Maria sono attenti alla voce delle vostre suppliche?» ecc. E, ottenuta la risposta, stava a pensare e subito dopo interrompeva con un’altra domanda. Ma il mio spirito non era ancora libero del tutto e io gli dissi di aspettare fino al giorno seguente; che in quel giorno io non potevo ancora parlare. Aspettò contento, ma non si lasciò sfuggite le prime occasioni per fare subito altre domande, cosa che indusse Giacinta a dirgli: «Senti! Di queste cose, parla poco!».
Quando parlavamo dall’angelo, non so che cosa si provava. Giacinta diceva:
– Non so che cosa sento! Ormai non posso più parlare, né cantare, né giocare e non ho forza per fare niente.
– Nemmeno io – rispose Francesco – ma che cosa importa, l’angelo è più bello che tutte queste cose. Pensiamo a lui.
Durante la terza apparizione la presenza del soprannaturale fu di gran lunga ancora più intensa. Per vari giorni, nemmeno lo stesso Francesco aveva il coraggio di parlare. E dopo diceva: «Mi piace molto vedere l’angelo, ma il brutto è che dopo non siamo buoni a niente! Io non ero buono neanche a camminare. Non so che cosa avevo! » Nonostante tutto ciò, fu lui che si rese conto, dopo la terza apparizione dell’Angelo, che la notte era vicina. Fu lui che ce lo fece notare e che pensò a riportare il gregge verso casa.
Passati i primi giorni e ritornati allo stato normale, Francesco domandò:
– L’angelo a te ha dato la santa comunione; ma a me e a Giacinta che cos’è che ci ha dato?
– Anche a noi ha dato la santa comunione – rispose Giacinta in una felicità indicibile – Non capisci che era il sangue che cadeva dall’ostia?
– Io sentivo che Dio stava dentro di me, ma non sapevo come! – E, prostrandosi per terra, rimase a lungo con la sorella, a ripetere l’orazione dell’angelo: « Santissima Trinità… ecc.».
A poco a poco, quell’atmosfera scomparve e il giorno 13 maggio ormai potevamo giocare con lo stesso piacere di prima e con la stessa libertà di spirito.
L’apparizione della Madonna tornò a farci concentrare nel soprannaturale, ma con più soavità. Invece di quell’annientamento in presenza del divino, che ci prostrava anche fisicamente, ci lasciò una pace e un’allegria espansiva, che non c’impediva di parlare in seguito di quello che era avvenuto. Invece, riguardo al riflesso che la Madonna ci aveva comunicato con le mani e di tutto ciò che ad esso si rapportava, sentivamo un non so che interiore, che c’induceva a tacere. Raccontammo, in seguito, a Francesco tutto quello che la Madonna aveva detto. E lui, felice, manifestando la contentezza che provava per la promessa di andare in cielo, incrociando le mani sul petto, diceva: «O Madonna mia! Di rosari ne dico quanti vi pare!». E da allora, prese l’abitudine di allontanarsi da noi come se stesse passeggiando… E se lo chiamavo e gli domandavo che cosa andava a fare, alzava il braccio e mi mostrava la corona. Se gli dicevo che venisse a giocare che dopo avrebbe pregato con noi, rispondeva: «Pregherò anche dopo. Non ti ricordi che la Madonna ha detto che dovevo recitare molti rosari?».
Un giorno mi disse: «Mi è piaciuto molto vedere l’angelo; ma mi è piaciuto ancora di più vedere la Madonna. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è stata di vedere nostro Signore in quella luce che la Madonna ci ha messo nel petto. Io voglio tanto bene a Dio! Ma Lui è così triste a causa di tanti peccati. Noi non dobbiamo farne mai neanche uno».
Ho già detto, nel secondo scritto su Giacinta, che fu lui a darmi la notizia che lei era venuta meno al nostro patto di non dire niente. E siccome il mio parere era che si doveva mantenere il segreto, aggiunse, con aria triste: «Io, siccome la mamma mi ha domandato se era vero, ho dovuto dire di si, per non mentire».
A volte diceva: «La Madonna ha detto che avremmo dovuto soffrite molto! Non m’importa; soffro tutto quello che Le pare! A me mi basta andare in cielo».
Un giorno che mi mostravo contrariata per la persecuzione che dentro e fuori della famiglia cominciava a manifestarsi, lui cercò d’incoraggiarmi dicendo: «Lascia perdere! Non ha detto la Madonna che avremmo dovuto soffrire molto in riparazione a nostro Signore e al suo Cuore immacolato di tanti peccati con cui sono offesi? Loro sono così tristi! Se con queste sofferenze potremo consolarli, dobbiamo accontentarci così».
Pochi giorni dopo la prima apparizione della Madonna, arrivati sul luogo del pascolo, sali su una roccia elevata e ci disse:
– Voi non venite quassù. Lasciatemi solo.
– Va bene. – E mi misi con Giacinta a correre dietro alle farfalle, che prendevamo, per subito fare il sacrificio di lasciarle andare, e non ci ricordammo nemmeno di Francesco. Arrivata l’ora della merenda, ci accorgemmo che non c’era e andai a chiamarlo.
– Francesco, non vuoi venire a far merenda?
– No, mangiate voi.
– E a dire il rosario?
– A pregare, dopo, vengo. Chiamami di nuovo.
Quando lo chiamai di nuovo, mi disse:
– Venite voi quassù a pregare vicino a me. – Salimmo sulla cima della roccia dove a malapena potevamo stare tutti e tre in ginocchio e io gli domandai:
– Ma che cosa stai a fate qui tutto questo tempo?
– Penso a Dio che è così triste a causa di tanti peccati! Se io fossi capace di dargli un po’ di gioia!
Un giorno ci mettemmo a cantare in coro le gioie della montagna:
Coro: Ah, tra lalà, là là tra lalà là là là là là!
In questa vita tutto canta
con me, si fa a chi canta meglio:
canta la pastora sui monti, canta la lavandaia al fiume.
È la voce del cardellino che mi viene a risvegliare! Non appena sorge il sole nelle selve a cantare!
Di notte canta la civetta che mi vuole spaventare, mentre spannocchia canta la ragazza al chiaro di luna!
L’usignolo per il piano passa il giorno a cantare! Canta la tortora nel bosco e stridendo canta il carro.
La montagna è un giardino, che sorride tutto il giorno! Son le gocce di rugiada che luccicano sulle montagne!
Finito di cantare la prima volta, stavamo per fare il bis, ma Francesco c’interruppe: «Non cantiamo più. Da quando abbiamo visto l’angelo e la Madonna, io non ho più voglia di cantare».
Nella seconda apparizione, il 13 giugno 1917, Francesco s’impressionò molto per la comunicazione del riflesso che, come ho già detto nel secondo scritto, avvenne proprio quando la Madonna diceva: «Il mio immacolato Cuore sarà il tuo rifugio e il cammino che ti condurrà a Dio». Pareva non avere al momento la comprensione dei fatti, forse perché non gli era dato dì udite le parole che li accompagnavano. Perciò dopo domandava:
– Come mai la Madonna stava con un Cuore in mano, diffondendo sul mondo quella luce così grande che è Dio? Tu stavi con la Madonna nella luce che scendeva verso terra, e Giacinta con me in quella che saliva verso il cielo!
– Il fatto è – gli risposi – che tu con Giacinta tra poco andrai in cielo; e io rimango col Cuore immacolato di Maria ancora un po’ qui in terra.
– Quanti anni rimani qui? – domandava.
Non so; parecchi.
– È stata la Madonna a dirtelo?
– Si, è stata Lei. E io l’ho visto in quella luce che ci ha messo nel petto. E Giacinta confermava la stessa cosa, dicendo: «E’ proprio così! Anch’io l’ho visto!». A volte diceva: «Questa gente è così contenta solo perché noi gli diciamo che la Madonna ci ha detto di dite il rosario e che tu imparassi a leggere! Che cosa succederebbe se sapessero quello che Lei ci ha mostrato in Dio, nel suo Cuore immacolato, in quella luce così grande! Ma questo è segreto; non gli si dice. E’ meglio che nessuno lo sappia».
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